Archweb .com 15 lug 2021 approfondimento 0 commenti

DOLORIS SOPITAM RECREANT VOLNERA VIVA ANIMAM

aforisma di anonimo latino

Giacché prima si dovettero inventare il coltello e la forchetta e poi l’umanità imparò a mangiare correttamente”. Con ogni probabilità questa locuzione, tratta dal romanzo di Robert Musil “L’uomo senza qualità” (Vol. I, pag. 130), non funziona nel caso che stiamo per analizzare: fuor di metafora, coltello e forchetta sono gli strumenti legislativi, il mangiare correttamente è la prassi amministrativa. E il cattivo funzionamento è avvenuto a dispetto di Musil non per sua distorta analisi, ma per la cecità di chi ci amministra, a livello sia centrale che periferico, in tema di tutela dei beni culturali ed ambientali.
Vogliamo centrare la nostra attenzione sul caso di Castel Sant’Angelo, borgo medievale del circondario reatino. Si tratta di una perla paesaggistica che si erge sulla dorsale centrale appenninica e si distende sulla piana di San Vittorino, centro frequentato in epoca romana nel I sec. A.C., poi divenuto fortificazione longobarda e poi ancora feudo della famiglia Farnese, con le sue numerose chiese medievali al cui interno affreschi di rilevo artistico ne testimoniano la ricchezza culturale. Da circa 40 anni questo borgo è stato ridotto a mal partito dall’incuria degli amministratori succedutisi nel tempo, ma anche dall’insipienza burocratica di chi gestisce a livello ispettivo la materia dei beni culturali ed ambientali e dovrebbe tutelarli, preservarli, promuoverli.
E le stelle stanno a guardare”, direbbe Cronin, medico scozzese prestato alla letteratura mondiale, che nel suo romanzo tratta delle condizioni dei minatori di una immaginaria cittadina inglese: le stelle continuano a guardare dall’alto la miseria dell’umanità, simbolo di una natura che si interroga sulle sciagure umane, in attesa che il sole un giorno su di esse risplenderà.

Ci dovremmo anche domandare “se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli “ (Shakespeare, Amleto, atto III, scena I). Dobbiamo ancora, noi destinatari finali della fruizione di beni culturali, soggiacere in silenzio al degrado politico, prima che architettonico e paesistico, di beni che testimoniano della defunta civiltà italica, oppure armarci delle armi consentite dalla morale e combattere? Forse “tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”? (Rutger Hauer alias Roy Batty, scena finale del film “Blade Runner” di Ridely Scott, 1982). Speriamo che non sia “tempo di morire” come termina l’attore e che qualche soggetto replicante, dotato però di maggior discernimento rispetto ai nostri, impedisca loro di mettere la pietra tombale sopra una storia durata sette secoli di genio architettonico, monumentale ed artistico.

Infatti, all’italico furore di produzione legislativa non sono mancati, nel corso degli ultimi due secoli, interventi normativi conditi di nobili ideali: già nel periodo pre-unitario del 1861, l’Editto del 1820 del Card. Pacca costituiva un organico provvedimento di protezione artistico-storica e di catalogazione di oggetti di antichità e di arte nelle Chiese Vaticane.
In seguito, un diluvio di regio decreti, decreti legislativi, decreti legge, leggi, testi unici, leggi delega, decreti presidenziali, decreti ministeriali, princìpi costituzionali, con cui si è discettato di princìpi e finalità pubbliche; poi, la creazione di sovrintendenze, commissioni ispettive, garanti, con rimbalzo di competenze fra Stato-Regioni-Enti locali; ed ancora, la costituzione di organismi pubblici e privati, tutti tesi alla protezione delle bellezze artistiche, archeologiche, architettoniche, paesistiche dell’Italia tutta; infine, i sottili distinguo giuridici fra bene culturale ed attività culturale, loro definizione, istituzione di un Ministero all’uopo con mutamento di definizione dopo due decenni, come se giuste parole, sacri princìpi, declamazioni costituzionali potessero da sole dare slancio, vitalità, capacità funzionale alle italiche sorti dei beni nazionali.

In conclusione, abbiamo capito la complessa questione: dopo procedure ed iter parlamentari e la pubblicazione di normative d’ogni sorta, siamo approdati alla prassi dell’incuria, all’abbandono, al mal funzionamento, all’enunciazione ipocrita, al degrado, allo sfaldamento, alla totale indifferenza. I fatti sono quelli che contano ed i fatti dicono che isolate voci si sono levate per denunziare il degrado di Castel Sant’Angelo, per fare appello all’amministrazione locale affinché intervenisse, almeno per alimentarne una coscienza etica politica carente.
Fra le voci di protesta, ne citiamo due:  da un articolo del giornalista Sergio Silva sul Messaggero del 21 settembre 1999 , dal titolo “Le mura medievali di Castel Sant’Angelo continuano a crollare e nessuno fa niente”, si legge, riportando l’appello accorato e lucido dell’Arch. Flavia Festuccia, all’epoca Presidente della sede Archeoclub di Castel S.Angelo (Presidente Nazionale Walter Mazzitti), ora socia di questa associazione: “le mura perimetrali dell’abitato crollano…le mura cadono a pezzi fra l’indifferenza generale…già avvenuto il crollo della parte est della cinta muraria…unico provvedimento amministrativo preso: la chiusura della strada sottostante (!!!)…rischio di sgretolamento del limite nord della cinta muraria…delle 11 torri tipiche del borgo originario, oggi ne sono visibili solo 7.
Dopo il crollo della Porta Pago (una delle due porte di accesso al paese), avvenuto a metà degli anni ’60, nulla è stato fatto per il suo restauro. Questo gioiello medievale si sta sgretolando“.
Nella ballata siciliana colonna sonora dello sceneggiato televisivo “L’amaro caso della baronessa di Carini” del regista Daniele D’Anza, che propose nel 1975 la vicenda storica della baronessa di Carini, Otello Profazio “Lu primu corpu la donna cadiu”.
Seconda denuncia pubblica, sempre a firma di Sergio Silva con articolo sul giornale Messaggero del 12 ottobre 1999, dal titolo “ Castel Sant’Angelo si spopola e va in rovina”.
Scrive il giornalista: “Le due Chiese di Castel Sant’Angelo, entrambe del 1400, ovvero San Rocco e Santa Maria della Porta, ricche di storia e di arte, con affreschi di rilevante pregio al loro interno, stanno cadendo a pezzi fra l’indifferenza degli amministratori”.
Ed è il giornale a riportare un vibrante appello della Prof.ssa Carla de Angelis, all’epoca vice-presidente nazionale dell’associazione Italia Nostra e responsabile della sezione reatina: “Neanche indifferenza, ma abbandono completo…sono caduti pezzi di affresco dell’abside della Chiesa di San Rocco. Inoltre, sull’affresco Incontro di Maria Vergine con Santa Elisabetta, piove da più di 30 anni e l’umidità lo ha già danneggiato gravemente…il borgo avrebbe bisogno di urgenti interventi di recupero e consolidamento delle strutture architettoniche…ci stiamo avviando ad una perdita irrecuperabile.
In particolare, la Chiesa di Santa Maria della Porta, che risale al 1400, è stata gravemente danneggiata dai terremoti succedutisi dal 1978 in poi, con crepe, lesioni, scomparsa di alcune sinopie…tantomeno vi è stata una sua valorizzazione a livello turistico
”.
Secondo colpo di pugnale inferto da mano omicida alla baronessa di Carini, “l’appressu corpu la donna muriu”: siamo in Sicilia agli inizi del 1800 e la baronessa, novella Francesca da Rimini di dantesca memoria, muore trafitta dalle pugnalate infertele dal padre, perché rea di averlo disonorato. È la morte, artistica e culturale, di questo borgo medievale, sotto le stilettate dell’indifferenza, dell’incuria, dell’incapacità politica. Nonostante denunce, appelli di voci isolate, il nulla, un nulla mentale che sacrifica il dinamismo amministrativo e lo slancio artistico all’indifferenza, all’abbandono.
Domandiamoci col Leopardi: “o Patria mia, vedo le mura e gli archi, ma la gloria non vedo..io chiedo al Cielo e al mondo: dite, dite, chi la ridusse a tale?“.
La risposta al grido poetico non è difficile, per ciò che ci riguarda: una esuberante produzione legislativa cui è seguita una totale assenza di prassi e misure concrete.
Presentiamo di seguito una sintesi di questa ricca elaborazione normativa: Legge Bottai del 1/6/1939 n. 1089 (a tutela dei beni culturali di interesse artistico e ambientale) e coeva Legge 29/6/1939 n. 1497 (a tutela delle bellezze paesistiche); istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, giusto D.L. 14/12/1974 n. 657 convertito in L. 29/1/1975 n. 5: definizione che suonava recalcitrante all’italico orecchio, visto che nel 1998, in attuazione della Convenzione dell’Aja del 14/5/1954 (dopo appena 44 anni di attesa), con D.Lgs. 20/10/1998 n. 368 attutativo dell’art. 11 della Legge Bassanini 15/3/1997 n. 59, tale
definizione veniva sostituita dalla più aggradante locuzione “Ministero per i Beni e le Attività Culturali”. Pregio della normativa richiamata: definire per la prima volta il concetto di “bene culturale” all’art. 148, comma 1, lett. a): “beni culturali sono quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza aventi valore di civiltà”. Ne sentivamo la necessità, veramente, di questa nuova linfa al dinamismo politico, per cui la parola è tutto, il resto non importa.
Afferma Ludwig Wittgenstein nel suo “Tractatus logico-philosophicus”: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. I nostri politici forse non l’hanno letto, o forse l’hanno letto
distrattamente, o hanno letto senza capire….ma non hanno taciuto, anzi, la produzione legislativa è aumentata in una misura pari solo alla loro incompetenza. Fra i nostri, sono da ricomprendere gli amministratori locali dei borghi ricchi di storia e di arte, in particolare gli amministratori del borgo Castel Sant’Angelo, custodi di un tesoro artistico che non meritano sia loro soggetto. Tuttavia, l’apparato statale, colto da febbre normativa, ha continuato nel suo operato: ha voluto cimentarsi nel definire “attività culturale”, ha poi creato organismi periferici per una politica di raccordo, onde proseguire nella sua opera di conservazione,
tutela, restauro, promozione di opere d’arte, di monumenti, di bellezze paesistiche, di strutture architettoniche. Con quale risultato?
E’ innanzi agli occhi di tutti: perpetrare l’indifferenza, l’incuria e l’incapacità.

Restiamo in ambito legislativo: sono intervenuti il Testo Unico delle disposizioni in materia di beni culturali ed ambientali, ovvero il D. Lgs. 29/10/1999 n. 490 a norma dell’art. 1 della L. 8/10/1997 n. 352, ed ancora il Codice dei beni culturali e del paesaggio, ovvero il D.Lgs.6/7/2002 n. 137, il c.d. Codice Urbani, capolavoro di audacia normativa in tema di beni culturali ed ambientali.
Vediamo come tale linea guida normativa sia stata attuata localmente a Castel Sant’Angelo, borgo ricco di importanti Chiese e affreschi, nonché di eccellenze architettoniche in primis le due Porte di accesso al paese, la cinta muraria perimetrale, le 11 torri: i suoi unici risultati sono stati degrado, usura, incuria, indifferenza degli amministratori, rovina delle opere e mancato restauro. Ma ora ci aspettiamo nuove riforme, nuovi organismi a tutela delle opere d’arte, delle mura cadenti, delle lesioni delle pareti delle Chiese, dei pezzi di affresco in rovina, delle erbacce che inorgogliscono le mura perimetrali: e poi ancora, nuovi convegni, nuovi centri di raccordo Stato-Regioni-Enti locali, nuove iniziative per la promozione dell’arte e del turismo. Come da copione, ci aspetta la nullità assoluta.
E così, le stelle di Cronin stanno sempre a guardare e Dante uscito dall’Inferno può finalmente esclamare “e uscimmo a riveder le stelle”. Anche, si può rammentare Shakespeare e gli ultimi versi del soliloquio di Amleto, il quale di fronte al dilemma se agire con risolutezza usando il pugnale, oppure, esitando, se rimandare il tutto, “di fronte al disprezzo del mondo, ai torti dell’oppressore, alle contumelie degli arroganti, ai ritardi della legge, alle ripulse inflitte al merito paziente dagli inetti”, afferma: “così la coscienza ci rende tutti codardi e il color proprio della risolutezza sbiadisce al pallido riflesso del pensiero e imprese di gran valore e altezza in questo modo deviano il loro corso e perdono la qualifica di azione”. Almeno, il bardo inglese poteva giustificare la mancanza di azione del suo personaggio con le remore della coscienza e col pallore del pensiero: beato lui che ancora poteva credere nell’esistenza di una coscienza e di un pensiero, seppur sbiadito. Noi, no…
SALVATORE TRUNCALI
    
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