Il formato file IFC e l’interoperabilità nel BIM

Il formato IFC è lo standard che garantisce l'interoperabilità all'interno dei progetti BIM

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BIM news

Pubblicato il

06 Dicembre 2021

Il formato IFC nasce per essere open source, neutrale e indipendente dalle software house, in modo da garantire l’interoperabilità tra i professionisti del settore delle costruzioni, senza restrizioni legate al formato file dei programmi in uso da ognuno.

È all’organizzazione internazionale buildingSMART che si deve la nascita del formato IFC (Industry Foundation Classes). Un tempo nota come IAI (International Alliance for Interoperability), buildingSMART è nata nel 1994, oggi si dirama in varie branche nazionali dette Capitoli, come IBIMI (Istituto per il Building Information Italia) e buildingSMART Italia. È a tutti gli effetti uno dei principali punti di riferimento per gli standard digitali aperti. Se non si hanno ancora le idee chiare su cosa siano il BIM e l’OpenBIM, partire dalla home page di IBIMI (filmati inclusi) può essere una buona idea.

Il formato file IFC nasce e si diffonde per rispondere ad una serie di intenti che non possono trovare risposte adeguate nei formati file proprietari delle diverse applicazioni, né tantomeno nei formati file CAD più diffusi che non contengono informazioni associate agli elementi geometrici, cioè che non sono BIM. l’IFC non solo garantisce una modalità di interscambio aperto e internazionalmente riconosciuto, ma vuole anche essere utile per estrapolare dati diversi a seconda della disciplina coinvolta in un dato punto del processo progettuale o di gestione, nonché un modo sicuro di archiviazione di dati basati su una classificazione di termini condivisa che renda la consultazione agevole nel tempo, cosa molto importante anche per il facility managemet dell’edificio durante il suo ciclo di vita.

I file in formato IFC sono la scelta migliore per scambiare file BIM che vanno bene a tutti

L’IFC nasce per costituire una sorta di base comune alla quale tutti possono attingere per comunicare tra loro, non per avere un file come quello in formato proprietario, solo con un’estensione diversa. I formati proprietari sono la cosa migliore per un gruppo che utilizza lo stesso programma e magari lavora in rete su uno stesso file, mentre l’IFC serve a garantire i più diversi usi del modello indipendentemente dal software in uso, compresa l’archiviazione e la visualizzazione con uno dei vari viewer disponibili.

A proposito di viewer IFC, molte software house ne mettono a disposizione di gratuiti e ce ne sono anche di indipendenti e di open source. Oltre alla semplice visualizzazione ed eventuali altre funzionalità, hanno un altro vantaggio, quello di fungere in qualche modo da “giudice” quando due software diversi non riescono a parlarsi bene via IFC, ossia quando si esporta un file IFC da un software e qualcun altro lo deve importare con un altro programma. Se in importazione non si trova quello che ci si aspetta, i casi sono due: se il viewer “giudice” legge correttamente in file, è ben probabile che il problema sia in importazione, perché è evidente che il file IFC esportato è buono; se invece già sul viewer le cose non quadrano, sarà il caso di rivedere i settaggi di esportazione. Per ovvi motivi è utile scegliere un viewer non prodotto da una delle due software house dei programmi coinvolti nella diatriba, o meglio ancora un viewer indipendente.

Per una bella lista di viewer IFC gratuiti si può consultare ifcwiki, ma ce ne sono anche altri. Due che meritano di essere presi in considerazione, non fosse altro perché cross-platform (Mac e Win), sono Solibri Anywhere e OpenIfcViewer di Open Design Alliance .

Come usare il file IFC: modelli editabili e di riferimento

Il formato IFC nasce per l’interscambio, quindi più come modello di riferimento per il coordinamento, che non come modello editabile per continue modifiche apri-modifca-salva-chiudi (cosa comunque possibile), quindi in linea di massima va importato, più che aperto. Poi alla fine della propria parte di lavoro se ne esporterà un altro che potrà essere di nuovo importato nel programma di BIM authoring, quello che gestisce il modello federato, ossia che contiene tutti gli apporti di tutti i professionisti coinvolti. Tutto ciò ha evidenti implicazioni sulla responsabilità di chi fa cosa, con tutti i relativi riferimenti normativi.

È evidente che all’impiantista può far molto comodo avere il progetto architettonico e strutturale per lavorarci sopra, perché non è il caso di forare delle travi per far passare gli impianti. Ma non può neanche pensare di modificare il progetto dello strutturista come gli fa più comodo e magari anche all’insaputa dell’ingegnere che quella struttura l’ha calcolata e firmata. Quindi l’idea di massima è che tutto sia a disposizione di tutti per la consultazione e l’utilizzo come modello di riferimento, ma ognuno può mettere la mani e modificare solo su ciò di cui è responsabile, coordinandosi con quello che sviluppano, o hanno sviluppato gli altri.

Ma allora non fa lo stesso continuare a scambiarsi i classici file CAD? No, perché non hanno informazioni associate agli elementi tridimensionali, sono solo disegni 2D o modelli 3D, quindi se si parla di BIM, servono poco. Quando si scambia e quindi si importa un file CAD 3D si ottengono una serie di elementi geometrici (ma potrebbe anche essere un unico blocco) che non sono distinti tra loro in elementi funzionali (muri, pilastri, finestre, arredi, ecc.), non hanno una precisa collocazione nello spazio (un piano dell’edificio, un’area funzionale, ecc.) e non hanno altre informazioni specifiche associate (materiali, stratigrafia, trasmittanza, prezzo, ecc.).

In più, con l’IFC si può scegliere di filtrare gli elementi del progetto prima di esportarlo per un altro professionista, in modo da fornirgli un modello più snello e di facile utilizzo. Ad esempio nel passare un progetto architettonico all’impiantista può essere utile non includere buona parte dell’arredo e per le aperture può bastare la forometria, senza altri dettagli in merito all’infisso (magari è utile segnalare le porte scorrevoli nello spessore del muro). Allo stesso modo si possono filtrare le proprietà e gli attributi associati agli oggetti, ad esempio non tutte i le figure professionali coinvolte sono interessate a conoscere la classe di resistenza al fuoco delle porte, oppure marca, modello, prezzo dei sanitari, oppure le texture procedurali associate alle pareti che verranno sfoggiate nei rendering.

Conoscere il formato IFC aiuta a strutturare il progetto

Un modello BIM è tale se è composto è di elementi che hanno alcune caratteristiche atte a descrivere a cosa servono, come si relazionano con gli altri elementi, che forma hanno, come si identificano in modo univoco ed eventualmente se hanno altre informazioni utili ad essi associate. Nel file IFC si ritroveranno tutte queste informazioni, con evidenti risvolti pratici. Quindi anche concepire il progetto fin dall’inizio con in mente questo tipo di classificazione può risultare utile, magari un po’ laborioso soprattutto all’inizio, ma è un gioco che vale la candela, tanto nello sviluppo del progetto (a maggior ragione se coinvolge più professionisti), quanto nell’esercizio e manutenzione del manufatto.

Per fare un esempio pratico e chiarire meglio le cose, si può partire da un caso molto semplice e di conseguenza usare la stessa logica per elementi che comportano una maggiore complessità, come muri multistrato, elementi strutturali, ecc. Due lampioni identici a qualche metro di distanza all’interno di un parco devono avere almeno un codice che chiarisce la loro specifica identità, così se una lampada si fulmina, il manutentore di turno può identificare facilmente quello giusto, perché gli è stato segnalato ed è indicato con precisione sulla mappa del parco (che lui potrebbe visualizzare su un tablet). Per il progettista, se sono identificabili uno ad uno, allora si possono anche “contare”, quindi il computo di quanti lampioni di quel tipo serviranno nel parco è una funzione automatica del software di progettazione e se si può inserire anche il prezzo nell’oggetto, si ha subito l’importo complessivo. Il lampione ha una relazione con il suolo del parco, ci sta appoggiato sopra, non fluttua nell’aria (così come porte e finestre esistono solo all’interno di un elemento muro), ha una quota di appoggio e pertanto appartiene ad un dato piano del progetto (non si visualizza nel terzo piano fuori terra, né nel secondo interrato), può far parte di una certa categoria o area funzionale e può contenere delle informazioni, come il tipo di lampada che monta. A questo punto il manutentore sa anche cosa portare con sé fin dal momento della segnalazione di guasto e magari riesce a ripristinare il lampione giusto arrampicandosi una volta sola. Certamente il lampione ha una geometria 3D e anche una rappresentazione 2D più o meno raffinate a seconda delle necessità, ma sufficienti a identificarlo visivamente, o a farlo venire abbastanza bene nel rendering. Basta l’involucro, non servono tutte le componenti interne che non si vedono, mentre produttore e modello possono rientrare nelle informazioni associate all’oggetto e rimandare a una scheda tecnica specifica per il montaggio e la manutenzione. Il progetto del lampione in ogni sua minima componente invece riguarda l’azienda che lo produce, non il progettista del parco, perché anche nel BIM ad un certo punto è il caso di porsi dei limiti.    

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